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Kingdom Come Deliverance: Recensione

Sbarcato su Kickstarter a gennaio del 2014, Kingdom Come: Deliverance si accattivò sin da subito l’interesse del pubblico con un concept tanto intrigante, quanto potenzialmente rivoluzionario. Lo sviluppatore ceco Warhorse Studios puntava infatti a lanciare sul mercato un gioco di ruolo totalmente svincolato dall’elemento fantasy, che prometteva di precipitare i giocatori in un mondo tanto realistico quanto brutale. Inizialmente previsto per la fine del 2015, il titolo venne successivamente posticipato a data da definirsi, fino alla conferma di un’uscita multipiattaforma prevista per oggi, 13 febbraio 2018. Dopo aver passato le ultime settimane a trepidare violentemente, nella speranza che l’incredibile potenziale del titolo di Warhorse potesse sbocciare in un tripudio di epicità, il pubblico videoludico è ora pronto a fiondarsi nella Boemia del XV secolo, in cerca di fama e vendetta.
Permetteteci allora di essere i primi a darvi il benvenuto, e state tranquilli: è un gran bel posto dove passare qualche decina d’ore.

“Svegliati, Henry, c’è del lavoro da fare”

La nostra avventura in Kingdom Come: Deliverance si apre nell’abbraccio di una giornata infuocata, eccezionalmente afosa per il clima che di solito avvolge le campagne di Skalica. Il sole è alto nel cielo, una gemma incandescente sospesa tra i placidi venti che corrono per la campagna boema, carichi dei mille odori della primavera.

Il ritmo battente del martello sull’incudine, lo scoppiettio del focolare, l’indistinto vociare del villaggio in lontananza: tutte pennellate di un quadro di tranquilla quotidianità. Una vita semplice, serena, che l’animo di Henry, il figlio del fabbro, rifiuta con tutto l’ardore della gioventù. Henry vuole l’avventura, l’emozione dell’imprevisto, brandire le lame piuttosto che forgiarle, come suo padre ha fatto tutti i giorni da che il ragazzo ha memoria. Ma i desideri, si sa, sono chimere pericolose, perché quasi mai danno felicità a chi ne vede il compimento, come un crudele contrappasso per il peccato della gioventù. È il 23 marzo del 1403, l’ultimo giorno di Skalica argentea. Oggi tramonta la vita del ragazzo e albeggia quella dell’uomo. Quella narrata da Kingdom Come: Deliverance è una storia di vendetta, intessuta tra le maglie di un conflitto fratricida. Re Venceslao IV, figlio di Carlo IV, siede sul trono di Boemia come dominatore del Sacro Romano Impero, ma la sua condotta indolente lo rende inviso ai nobili del paese, che chiedono a gran voce l’intervento dell’ambizioso fratello, Sigismondo. Spodestato il legittimo erede, Sigismondo scatena sulla Boemia una forza militare senza eguali, composta da soldati ungheresi, mercenari e barbari cumani, che gettano il paese nel caos, mettendo a ferro e fuoco tutti i feudi fedeli a Venceslao. Dopo aver perso i propri affetti nell’assedio di Skalica, ridotta in cenere dalla ferocia di questa falange disumana, Henry vota la propria esistenza all’annientamento delle forze del re di Ungheria, e del generale Markvart von Auliz, avanguardia dei suoi massacri. Capiamoci sin da subito, però: l’opera di Warhorse Studios non è il racconto delle gesta solitarie di un eroe invincibile, materia per le romanze fantasiose di bardi e cantastorie. Quella di Kingdom Come: Deliverance è la storia di un soldato come tanti altri, forgiato dalla tragedia e sorretto dalla determinazione, l’unico unguento in grado di lenire le ferite di un passato doloroso, avvelenate dalla paura che scorre, come icore, su campi di battaglia senza nome.

Nella visione dello studio ceco non trovano spazio spade magiche, incantesimi o possenti dragoni, ma solo la cruda realtà di un tempo dominato da spada, superstizione e conio. Si tratta di un concept radicale, rivoluzionario nel suo voler riscrivere i canoni classici del ruolismo videoludico, inglobando elementi di simulazione e dinamiche proprie dei survival, alla ricerca di un realismo quasi inedito per il genere di riferimento. Un titolo ambiziosissimo il cui valore, come spesso succede in questi casi, è ben superiore alla somma dei suoi elementi costituenti. Per riconoscere appieno quel valore, il bagliore nascosto tra le sfaccettature di questo diamante imperfetto, serve però del tempo.
Fidatevi, ne vale la pena.

Luci e ombre nella Boemia del XV secolo

Le prime ore di Kingdom Come: Deliverance gettano gli utenti, disorientati, tra le braccia di un gioco che fatica a nascondere tutte le proprie debolezze, specialmente sul fronte tecnico.

Pur offrendo un colpo d’occhio di tutto rispetto, grazie a una cura per i dettagli storici e ambientali che ha del maniacale, è difficile non notare sin da subito il peso esercitato sulla produzione da un budget – relativamente – risicato e dalle dimensioni contenute del team di sviluppo. Le animazioni “robotiche” dei villici, con la fastidiosa tendenza a camminare “addosso” al protagonista e a intavolare dialoghi fissando una direzione a caso, le clamorose compenetrazioni di vestiario ed equipaggiamento, la legnosità di cavalli e cavalieri, un’interfaccia utente decisamente farraginosa: questi sono solo alcuni degli aspetti più lampanti di un comparto tecnico caratterizzato da notevoli spigolosità e forti fluttuazioni qualitative. A rendere il tutto più indigesto, ci sono anche alcune scelte di design tutt’altro che azzeccate, tra cui spicca uno dei peggiori minigiochi di scassinamento dai tempi di Skyrim, accompagnato da meccaniche di borseggio che definire macchinose è riduttivo. Darsi all’arcieria risulta egualmente scoraggiante, a causa di un approccio fondamentalista alla materia, che sfida i confini della frustrazione a favor di realismo. Realismo che trova poco, pochissimo spazio tra le spire di dinamiche stealth a tratti incomprensibili, anche a causa di un’intelligenza artificiale fortemente altalenante, che genera comportamenti quantomeno bizzarri tra le file di nemici e fauna.

Tolti di dosso tutti i complementi sferraglianti del vostro assetto battagliero, riuscirete tranquillamente a sgattaiolare tra i piedi – letteralmente – di buona parte degli npc (specialmente di notte), salvo poi ritrovarvi assediati da un drappello di armigeri dopo aver tentato di stordire, con successo, un soldato solitario addormentato nell’oscurità di una tenda. Le vostre prime 5-7 ore di gioco saranno probabilmente costellate da una miriade di piccoli crucci, avvalorati dall’eco di una narrativa che fatica a ingranare, anche a causa delle forti limitazioni che all’inizio ostacolano il desiderio d’avventura (e di esplorazione) del nostro impaziente avatar. A questo punto succede però qualcosa di incredibile, inaspettato. Misteriosamente, in maniera quasi impercettibile, i difetti del gioco iniziano a perdere di definizione, sfumano mentre l’opera di Warhorse Studios comincia a scorrerci sotto la pelle, con una potenza sorprendente. Dopo qualche altra ora, scopriamo di aver definitivamente abbandonato il nostro “involucro ludens” e ci troviamo catapultati in Boemia, dietro gli occhi di Henry.

Ed è così che delle successive 45 ore non ricordiamo nulla del tempo passato a cercare, con scarsi risultati, di trafiggere in punta di freccia una lepre a pochi passi di distanza, o dell’assenza cronica dell’ombra proiettata dal collo del protagonista. Nella mente riecheggia invece il tempo trascorso a bere in compagnia del licenzioso prelato Godwin, della rissa da osteria con le guardie del balivo locale e della notte passata a osservare, storditi, il parroco intento a benedire a colpi di reni le grazie femminee della sua concubina. Sentiamo ancora scorrerci nelle vene l’adrenalina del primo assedio, quando, con le narici gravide di sudore e sangue, marciavamo uniti verso il cuore dell’accampamento cumano. Ricordiamo le ultime parole del primo comandante sconfitto, i riflessi del sole attraveso la fessura dell’elmo, il corpo martoriato di un bandito tradito dai suoi compagni e lasciato ad agonizzare nel sudiciume di una stamberga isolata. Eravamo lì, sentivamo il calore dell’alba, il bacio della rugiada del mattino e il morso della lama del nemico. Sono sensazioni che non hanno prezzo, manifestazione emozionale di un coinvolgimento raro e inebriante, che ripaga ogni asperità con vagonate di ricordi preziosi. Il mondo creato da Warhorse Studios è un palcoscenico avvolgente, vividissimo, sul quale va in scena una storia assolutamente memorabile, al netto di qualche cedimento nelle fasi finali dell’avventura. Imperfezioni che si riflettono anche sulla scrittura dei dialoghi e sulla qualità registica delle cutscene (per la gran parte meravigliose), senza però riuscire ad adombrare la luminosità di un gioiello ludico che travalica i propri difetti, offrendo al giocatore un’esperienza unica, che merita di essere vissuta.

Bere ci salverà tutti

A fomentare l’ascendente immersivo della produzione c’è un sistema di progressione libero da classi o archetipi, che traduce in abilità e statistiche ogni azione svolta dal protagonista, che si tratti di un’ubriacatura molesta, di una cavalcata al tramonto, o di un bacio rubato a forza di chiacchiere alla virtù di una casta nobildonna. Non potendo contare sulla parlantina, potremo convincere gli interlocutori con il nostro aspetto intimidatorio o, in alternativa, col carisma proiettato dallo sfarzo degli abiti indossati. La sensazione è quella di avere una marea di strumenti per interagire efficacemente col mondo di gioco e con i suoi attori, sfruttando una grande varietà d’approcci.

Il modo in cui le missioni e le sottomissioni (spesso piuttosto brillanti) sono strutturate permette al giocatore di raggiungere l’obiettivo del momento seguendo strade diverse, compresa quella che corre sul filo della lama. Sebbene abbastanza ostico, specialmente nelle fasi iniziali, il sistema di combattimento di Kingdom Come si dimostra profondo e appagante, straordinariamente stratificato nel numero di elementi che possono contribuire al successo guerresco di Henry. Ogni strato di equipaggiamento (ci sono 14 slot solo per il vestiario) determina bonus in difesa per specifiche categorie di danno, legate ovviamente al tipo di arma equipaggiata da noi o dal nemico. Strano a dirsi, le articolate regole di questo sistema risultano relativamente semplici da assimilare, così come le dinamiche di un combat system che, al netto di qualche macchinosità, si presta a scontri tesi ed emozionanti, che premiano l’abilità del giocatore. Proprio come nella realtà (medievale), fronteggiare due o tre nemici può rivelarsi un’impresa drammaticamente ardua, nonché una sfida per le abilità tattiche e marziali della mente dietro agli occhi del protagonista. Occhio a esercitare troppo il bastone e troppo poco la carota, però, dato che il sistema di reputazione del gioco, modulato da gran parte delle vostre azioni, può rendervi la vita sociale un vero inferno. Pur mancando – e per fortuna – un vero e proprio sistema di moralità, presto noterete che gli npc hanno la tendenza a ricordare le ogni malefatta, all’interno di un mondo nel quale le vostre decisioni possono esercitare un certo, tangibile, peso. Non sperate di poter indulgere troppo nel vecchio trucco “salvo, e se non mi va bene, ricarico“, anche perché Kingdom Come: Deliverance include uno dei sistemi di salvataggio più infami della recente storia videoludica. Sebbene il gioco salvi automaticamente a ogni svolta importante delle missioni, e dopo aver dormito qualche ora in un letto (dormine e mangiare è necessario, ma le tempistiche sono piuttosto indulgenti), l’unico modo per registrare autonomamente i progressi è quello di utilizzare un oggetto chiamato “Grappa del Salvatore“. Prendetevi qualche istante per assorbire il colpo.

Ok, andiamo avanti. Inizialmente questo prezioso liquore può essere solo acquistato (e a caro prezzo) dai mercanti cittadini, ma poi potrete distillarlo voi stessi dopo aver studiato qualche tempo presso un alchimista, per alimentare la relativa abilità che, di fatto, coincide con l’unica meccanica di crafting del gioco. Una meccanica che rimane fedele alla natura radicale del titolo, con sistema di distillazione piuttosto articolato, sostanzialmente impossibile se il vostro alter ego non ha già frequentato le lezioni di uno scrivano. Non pensavate mica che il figlio di un fabbro del XV secolo sapesse leggere e scrivere, vero? Anche in questi passaggi, all’apparenza contorti, il titolo di Warhorse Studios stringe la presa avvincente di un concept di razza, tutto dedicato alla magia dell’immersione videoludica. Un incantesimo lanciato grazie a logiche di “trade-off” ben calibrate che, se da una parte trattengono il gioco dal raggiungere l’empireo dell’eccellenza assoluta, dall’altra delineano i tratti di un prodotto senza dubbio brillante e ispiratissimo.

Anche l’occhio vuole la sua parte

Come anticipato, Kingdom Come: Deliverance non trova nella realizzazione tecnica uno dei suoi maggiori punti di forza. Sebbene il motore di gioco riesca spesso a comporre scenari decisamente suggestivi, anche per merito di un buon sistema di illuminazione, quasi tutti gli aspetti del comparto grafico mostrano qualche carenza, tra texture spesso slavate, moli poligonali tutt’altro che impressionanti, shader immuni agli effetti della pioggia (non tutti per fortuna) e animazioni legnosette. Difetti resi ancor più evidenti dalla grande distanza qualitativa che c’è tra le cutscene, eccellenti, e la normale esperienza di gioco.

Malgrado tutto, però, il gioco fatica a mantenere un frame rate stabile anche su hardware alquanto potenti. Stranamente, tra l’altro, abbiamo pochissime differenze che tra un profilo e il successivo (basso, medio, alto, ecc.), un dato che ci fa ben sperare circa i margini di miglioramento del titolo, almeno dal punto di vista strettamente prestazionale. Anche la gestione delle collisioni è ben lontana dalla perfezione, così come l’intelligenza artificiale che anima npc e animali, decisamente altalenante. Al gioco non manca poi una quota consistente di bug e glitch di vario genere, che però, fortunatamente, non inficiano la qualità complessiva dell’esperienza. Discorso diverso per il comparto sonoro, composto da brani in grado di sottolineare più che degnamente l’epicità delle scene a schermo, seppur con qualche saltuaria dissonanza sul fronte della coerenza musica-azione. Buono anche il doppiaggio, che diventa a tratti eccellente quando a parlare sono i personaggi principali, e monocorde quando il centro dello schermo è occupato da figuranti poligonali.

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