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ONE HOUR, ONE LIFE RECENSIONE: UN ORIGINALE MULTIPLAYER COOPERATIVO

Uno degli autori più visionari del settore indie, Jason Rohrer, realizza One Hour, One Life, un gioco che riscrive le regole del multiplayer cooperativo.

Sebbene sappiano raccontarci grandi storie, deliziarci con della splendida musica e catturarci con delle intriganti scelte grafiche, i videogiochi hanno conquistato il mondo dell’intrattenimento grazie a un elemento assolutamente peculiare e singolare: l’interazione. Ma il concetto di interattività, a partire dalle prime, sperimentali creazioni, si è sempre basato su prospettive di scontro, sfida, conflitto. A causa di questa tradizione, una larga parte dell’opinione pubblica e della critica culturale ha sempre visto il videogioco come un mezzo di comunicazione privo di particolare spessore, incapace di raccontare emozioni e situazioni sfaccettate e complesse, come invece hanno saputo fare il cinema o la letteratura. Per reagire a questi preconcetti, molti autori videoludici hanno sperimentato numerose formule interattive, dando origine a nuovi generi. Tra questi, uno dei nomi più importanti è senza dubbio quello di Jason Rohrer, uno sviluppatore che forse sarà sconosciuto ai più, ma che, con il suo estro creativo, ha saputo riscrivere le regole del videogioco, garantendo al mezzo un’evoluzione straordinaria. Vediamo come ha applicato la sua visione autoriale nella sua ultima, strepitosa opera, One Hour, One Life.

La storia dell’umanità

Volendo forzatamente individuare un genere di appartenenza, One Hour, One Life può essere identificato come un multiplayer cooperativo online con server persistenti, i cui contenuti possono essere modificati dai giocatori, e che prevedono una crescita enorme di strutture, strumenti e ambienti di gioco, dai vestiti in pelle di coniglio fino ai robot automatizzati. Gli elementi presenti nel gioco sono innumerevoli, tuttavia non si sbloccheranno nel tempo con dei DLC, ma solo tramite la collaborazione collettiva degli utenti. In One Hour, One Life, Jason Rohrer vuole infatti rappresentare la storia evolutiva dell’umanità da una prospettiva globale, lontana dall’individualismo.

Ciò che dovremo fare, dunque, sarà vivere e agire in cooperazione con i vari gruppi che incontreremo nel gioco, e solo grazie a quest’ultimi potremo sopravvivere abbastanza da dare forza e spazio alle nuove generazioni per proliferare. Ogni minuto di gioco infatti corrisponde a un anno di vita, e di conseguenza – nei primi istanti dell’esperienza – ci sarà impossibile compiere alcuna azione, se non limitarci ad osservare impotenti l’automatico pianto isterico del nostro affamato avatar. Saremo totalmente e integralmente nelle mani degli altri giocatori, delle mamme, delle nonne, dei padri e dei fratelli che ci vorranno supportare. Una volta cresciuti, avremo l’opportunità di dedicarci alle attività più disparate, in relazione al livello tecnologico e culturale raggiunto dalla community, alle abilità del singolo giocatore e al personaggio utilizzato (il cui sesso ed etnia vengono generati casualmente). È straordinario notare come, in pochissimi giorni dal lancio del gioco, mentre nelle prime ore i server erano sostanzialmente una landa desolata popolata da qualche piccolo gruppo di individui spaesati, oggi è sempre più facile trovare veri e propri villaggi, con tanto di mura e fornaci, nonché utenti con un compito preciso e ben strutturato. Non solo: la difficoltà della vostra partita (e quindi dell’intero team) si stabilirà in relazione alla capacità di comunicare. All’inizio non potrete ricorrere a più di una lettera per esprimervi: con l’avanzare del tempo vi verrà data la facoltà di usufruire di alcune piccole parole, e solo dopo qualche anno di gioco sarete in grado di scrivere (con una chat testuale) vere e proprie frasi. Di conseguenza, i primi minuti servono ai vostri genitori per spiegarvi i compiti, i luoghi e gli obiettivi del villaggio: se non lo faranno, verrete lasciati in balia del caso, e dovrete decidere voi in che modo agire, rischiando così di svolgere un ruolo già incarnato da altri partecipanti, e arrecando inevitabilmente un danno alla comunità (ad esempio, troppi cacciatori rischiano di distruggere tutte le fonti di cibo vicine).

Il trionfo del minimalismo

Invece di puntare sul realismo, Jason Rohrer ha optato per un minimalismo visivo dettato da necessità sia economiche, sia autoriali. Infatti, sebbene i tasti da controllare siano soltanto due (ossia quelli del mouse), è nelle interazioni tra gli oggetti e i luoghi di gioco che risiede la grande, nascosta complessità dell’esperienza di One Hour, One Life. È in questo semplice, diretto ed efficace rapporto tra comunicazione, linguaggio ed interattività che esplode la narrativa emergente dell’opera di Jason Rohrer: genitori incapaci, grandi collettività organizzate e violente ribellioni o emigrazioni si evolvono in maniera fluida e a volte imprevedibile, come difficilmente è stato visto o fatto da altri videogiochi.

Mentre si lavorano i campi o si va a caccia, probabilmente uno dei giocatori più anziani del server vi convocherà al centro del villaggio, per lasciarvi i suoi abiti e le sue informazioni, oppure i più giovani verranno in lacrime da voi sperando di ottenere qualche consiglio; oppure ancora i due adulti più capaci della tribù potrebbero scontrarsi tra loro perché desiderano due evoluzioni diverse del gruppo, portandolo così verso il fallimento; inoltre troppi bambini a volte sono impossibili da accudire, e potreste persino essere abbandonati ai confini del villaggio. La varietà di situazioni dipende quindi solo ed esclusivamente dalle scelte dei giocatori, e dall’evoluzione della comunità.

Fr3nkMara

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